Le aree interne, i paesi, i borghi abbandonati. Sono anni che i dibattiti estivi si snodano attorno a questi temi, declinati nelle diverse sfaccettature, qualcuno ha pensato di costruirci festival e narrazioni di varia natura. Con l’esplosione della pandemia, dalla quale non ne siamo ancora fuori, ecco perché bisogna osservare quelle poche regole ma fondamentali per il contenimento del contagio, la discussione sulle aree interne si è fatta ancora più intensa, per alcuni versi davvero interessante, perché legata alla possibilità di realizzare lì le condizioni ideali per i ritorni di chi, potendo lavorare in remoto, sceglie di abbandonare le città e fare ritorno alle proprie radici. C’è anche chi, in misura più piccola, sta scegliendo le aree interne come nuova residenza: un fenomeno molto interessante che andrebbe studiato con particolare attenzione. Lo chiamano south working, lavoro dal Sud, ma il vero nodo da sciogliere resta un altro: il lavoro al Sud.
Di aree interne e spopolamento se ne parla da sempre, soprattutto d’estate quando è decisamente più facile organizzare eventi e dibattiti proprio in questi luoghi oggetto d’esame. Nessuno sa resistere al fascino dei piccoli paesini che nella stagione più calda, complici la luce, i rientri e le temperature gradevoli, si mostrano nella loro natura più autentica, ma di questa antologia stagionale dei paesi, noi che viviamo al Sud, ne siamo francamente stanchi. Nulla contro chi anima culturalmente la vita dei nostri paesi e, sia ben chiaro, nulla contro la piccola impresa settimanale dell’intrattenimento paesologico, ma se dopo molti anni – e chissà quanti convegni- la condizione non sembra affatto essere cambiata, e lo provano titoli e parole di certi dibattiti troppo spesso attorcigliati su loro stessi, evidentemente c’è più di qualche errore di merito e di metodo che va affrontato e risolto. Capisco che possa esserci una sorta di elefantiasi teoretica che non permette di generare nuove idee e nuove visioni, soprattutto adesso che l’incertezza del domani è segnata dal rischio di un riacutizzarsi della crisi epidemiologica che potrebbe portarci pericolosamente ad un nuovo Lockdown, ma per chi ha deciso di vestire gli abiti dell’animatore sociale e culturale dei territori è necessario fare uno scatto in avanti. La difficoltà nell’immaginare e suggerire al decisore pubblico nuove e innovative visioni di futuro è ampiamente condivisa anche da parte di chi scrive, ma proprio per questo penso sia il caso di avviare una fase nuova ed inedita di condivisione e confronto sul destino delle nostre comunità. Una vera e propria chiamata all’impegno per storici, innovatori, makers, intellettuali, artisti e politici per la scrittura di una nuova agenda, i cui capisaldi devono (possono) essere tre: green, digitale, sicurezza. Basta di stare a guardare i cantieri o di tagliare i nastri, è arrivato il tempo di sporcarsi le mani. A partire da un concetto di base forte e che in tanti, purtroppo, hanno strumentalizzato o mal interpretato: l’appartenenza. Non parlo dell’appartenenza che riconduce al concetto tribale di comunità, lo stesso che vuole chiudere porti ed escludere i “diversi”, quello che è alla base di un pensiero al quale questi libri si oppongono e che Dominique Reynié chiama “populismo patrimoniale”, ossia la tendenza a trarre profitto politicizzando un duplice malessere ormai abbastanza radicato: da un lato il patrimonio materiale economico, dall’altro il patrimonio culturale e i modi di vita quotidiani; questa appartenenza a cui faccio riferimento è ad una storia, passata o che verrà, che rischia di perdersi nel mare delle narrazioni fluide e incentrate al solo marketing territoriale. La storia più recente della Basilicata ha dimostrato chiaramente che non c’è più una sorte irrevocabile, determinata dal posizionamento geografico, a segnare il futuro di un territorio. Nel 2019 Matera ha mostrato al mondo la propria forza e quell’antica bellezza che l’ha resa unica ed inimitabile, così come tutta la Basilicata ha potuto raccontarsi al mondo e presentarsi come non aveva fatto mai. Di questa nuova e buona narrazione ne ha grandi meriti il cinema che è tornato ad illuminare questo territorio grazie alle produzioni internazionali ma anche alle fiction nazional popolari che hanno illuminato le televisioni degli italiani. E’ stato un tempo del tutto inedito, incoraggiante, positivo, foriero di un futuro che si spera possa essere la sola alternativa al cono d’ombra dentro il quale la Basilicata è rimasta intrappolata per moltissimi anni. Ma il futuro ha bisogno di visioni e azioni, di politiche lungimiranti e di coraggio. Perché è proprio grazie ad una spinta coraggiosa che questo balzo in avanti è stato compiuto e che oggi, per il bene di tutti, sta determinando tutto ciò. Per me la Basilicata è il luogo ideale perché ha saputo dimostrare di esserlo. E tante cose ancora si possono fare e realizzare. C’è la grande sfida del 5G a Matera, ad esempio, con importanti implicazioni anche in termini di cybersecurity. In questi ultimi anni abbiamo avuto la capacità di crescere e di mettere in campo il meglio che ha. E non ha riguardato solo la cultura, ma anche le associazioni, le singole persone e le realtà più dinamiche come lo sport. Ma la Basilicata può davvero rappresentare un punto di eccellenza mondiale anche per quanto riguarda il settore energetico, oggi alle prese con una delle più importanti rivoluzioni: la transizione energetica, socialmente equa con l’obiettivo di preservare il pianeta. C’è chi lo sta già facendo, al netto della propaganda, spesso troppo facile ed urlata degli scoraggiatori militanti, ormai professionisti di una certa retorica anti progresso e pauperista. Non esistono decrescite felici, esiste solo la povertà che va contrastata con tutte le forze e con l’innovazione tecnologica.
Nel suo ultimo intervento pubblico, durante i lavori di apertura dell’edizione 2020 del Meeting di Rimini, Mario Draghi ha indicato una strada, non facile, ma necessaria, sulla quale dobbiamo incamminarci tutti… Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario ma serve anche tanta serietà, sobrietà, trasparenza. Servono abilità e spirito di servizio. Questo è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione e di azione comune. C’è bisogno di una nuova visione, oltre i festival, i selfie e le sagre estive. Bisogna essere giraffe, avere il collo lungo per guardare al futuro, e non struzzi.
Grazie a Sergio Ragone per questo gradito contributo