Una delle decisioni prese a livello europeo che è riecheggiata nelle discussioni politiche in Italia negli scorsi giorni è stata sicuramente quella assunta dal Parlamento europeo di approvare l’accordo provvisorio con il Consiglio sul divieto di vendere autovetture e veicoli commerciali di nuova produzione a combustione interna a partire dal 2035. Come spesso succede, in queste occasioni, si sono create due fazioni opposte, tra coloro che ritengono che gli obiettivi UE non siano sufficienti e coloro che attaccano l’Europa per mancanza di realismo, dando poca importanza alla necessità di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Questo fenomeno tende ad essere più accentuato quando entra in ballo l’automobile – si pensi ai gilet gialli in Francia – dove si nota la discrepanza tra una fascia sempre più importante della popolazione, specie quella giovanile, che ricorre meno all’auto, e le persone che per motivi di lavoro o familiari non possono farne a meno. Una posizione equilibrata sul tema guarda a come tenere insieme le esigenze delle persone, sia chi le auto le usa e chi lavora per produrle, e quelle della transizione ecologica, e ad affrontare le questioni senza un atteggiamento ideologico.
Uno degli aspetti critici del passaggio all’auto priva di combustione interna, che può essere quindi, con le tecnologie attuali o in via di sviluppo, elettrica o a idrogeno, è quello di garantire che l’energia elettrica utilizzata – che sia accumulata nella batteria dell’auto o impiegata per produrre l’idrogeno – sia stata effettivamente prodotta a basse emissioni. In particolare, qualora gli obiettivi di decarbonizzazione della produzione di energia non venissero raggiunti, e l’energia prodotta per le auto elettriche venisse prodotta bruciando gas o carbone, la costosa transizione alle auto elettriche sarebbe stata solamente un’ipocrisia che avrebbe stravolto inutilmente la filiera italiana dell’automotive. Ben venga quindi la recentissima decisione della Commissione europea di includere tra l’idrogeno verde anche quello prodotto da fonte nucleare. Ma occorre anche riflettere sull’eventualità di sviluppare la tecnologia dei motori a biocarburanti e consentire la vendita di veicoli basati su di essa anche oltre il 2035. In sintesi, occorre assumere un atteggiamento di realismo, non di ideologia, seguendo il principio della neutralità tecnologica.
Un altro ragionamento da fare è quello sulle materie prime necessarie alla transizione all’auto elettrica. Come noto, le batterie necessitano di materie prime, quali il litio, concentrate nelle mani di pochi paesi produttori, disponibili in quantità relativamente ridotte, e la cui estrazione e smaltimento comporta un grave impatto ambientale. L’impatto sull’ambiente va quindi valutato considerando l’intero ciclo di vita dei prodotti, non fermandosi alle emissioni del singolo veicolo.
Infine, bisogna porsi il problema su come saranno gestiti gli aspetti occupazionali ed economici della transizione verso nuove concezioni della mobilità privata. Trattandosi di un aspetto europeo, sarebbe auspicabile che fosse l’Unione europea, con le proprie risorse, a sostenere cittadini e imprese. Per questo motivo occorre potenziare gli strumenti di bilancio dell’Unione, e quanto affermano alcune delle principali voci nel dibattito in corso sulle regole di bilancio dell’UE relativamente ai beni pubblici europei è più attuale che mai.
Per vincere la sfida della transizione serve quindi coniugare l’ambizione della riforma dell’Europa con il pragmatismo, lasciando perdere sia le ideologie desuete sulla decrescita sia i rifugi angusti dei sovranisti antieuropei.
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