Oggi per “Le Grandi Interviste” ho avuto il piacere d’intervistare Rocco Colangelo. Una delle più stimate e ascolta te personalità politiche lucane, oggi si è ritagliato un ruolo di fine intellettuale e politologo che con consumata esperienza legge i fenomeni del nostro tempo e ne anticipa gli scenari futuri. Buona lettura!
Siamo alla fine di un anno difficile che speravamo potesse potarci fuori dal Covid. Così non è stato ma l’Italia ha dimostrato di fronteggiare la pandemia meglio di altri. Lei pensa che ci siano stati errori, carenze, o che bisogna insistere su questa strada?
La pandemia Covid-19 è stato ed è un evento globale devastante, che ha messo in ginocchio tutti gli Stati e tutti i regimi e ingaggiato una sfida minacciosa quanto insidiosa agli apparati scientifici di tutto il mondo. Nell’era della full immersion comunicativa la pandemia si è tradotta anche in una infodemia, con un dibattito pubblico che ha divorziato subito dalla ragionevolezza e con una babele delle informazioni e delle opinioni che ha finito per amplificare a dismisura angosce, paure e smarrimenti. Penso che in Italia l’emergenza Covid sia stata affrontata in ossequio al principio di precauzione e che la tastiera delle misure di contenimento sia stata utilizzata facendo prevalere il più delle volte la ragione sulle emozioni. La competenza binaria tra Stato e regioni in materia di sanità ha nuociuto all’unitarietà di indirizzo nella prima fase della pandemia; l’esigenza di contemperare la salvaguardia della salute pubblica con la piena ripresa delle attività economiche ha inevitabilmente innescato conflitti di settore di non facile gestione. La comunicazione ufficiale del governo e dei suoi organi tecnico-scientifici non è stata sempre coerente e convincente; la messa in sicurezza del sistema dei trasporti molto carente e discutibile. Ma la vaccinazione di massa è stata un grande successo sul quale pochi avrebbero scommesso.
Il 2022 ci presenta una scadenza immediata di prima grandezza: la elezione del presidente della Repubblica. Cosa si muove a suo giudizio e come si stanno muovendo le forze politiche in vista dell’appuntamento Quirinalizio?
Abbiamo vissuto la legislatura più pazza della storia repubblicana, con tre formule di governo antitetiche che si sono succedute in pochi anni e con un parlamento stravolto e ormai lontanissimo dal rappresentare lo stato reale delle forze del Paese. In questo contesto l’elezione del Capo dello Stato è diventato il giro di boa tra la legislatura morente e quella nascente, la prova generale delle alleanze e degli assetti possibili negli anni che verranno. Le manovre tattiche dei partiti rispecchiano l’assenza di grandi opzioni strategiche, messa ulteriormente a nudo dalle loro piccate reazioni all’istanza espressa da Mario Draghi di una convergenza parlamentare nel medesimo segno dell’unità nazionale che sorregge e giustifica l’attuale governo. Fare delle previsioni è il più aleatorio degli esercizi, tanto più che il più importante dei Grandi Elettori resta la pandemia. In ogni caso, checché ne pensino gli attori politici minori che sognano di fare la differenza decisiva nella sfida per il Colle, se non si arriverà ad una intesa larga tra gli schieramenti, oltre ad un nuovo Capo dello Stato si dovrà trovare anche un nuovo Premier per l’ultimo scorcio della legislatura.
Come vede il futuro della legislatura e che effetto avrebbe la permanenza o meno di Draghi alla guida del Governo?
Che il governo di unità nazionale voluto da Mattarella sia stata la risposta migliore alla grave emergenza sanitaria ed economica degli ultimi due anni non sussistono dubbi di sorta. Ma, più che il governo, è stato Mario Draghi con la forza della sua personalità a segnare una svolta reale negli indirizzi della politica nazionale e soprattutto della sua credibilità ed autorevolezza rispetto all’opinione pubblica nazionale e internazionale. La figura di Draghi giganteggia sui possibili leader, o presunti tali, espressi dalle diverse forze politiche e dunque è faticosissimo immaginare un’altra premiership capace di portare a termine la fuoriuscita dalla pandemia e di mettere a terra e implementare gli straordinari investimenti del PNRR. Ma è pur vero che, soprattutto negli ultimi mesi, a partire dalla legge sulla concorrenza per finire alla manovra finanziaria di fine anno, condizionamenti e compromessi sempre più pesanti hanno tolto smalto e incisività all’azione del governo ed annacquato in maniera vistosa l’immagine riformatrice dell’esecutivo. Sono portato a pensare che, al netto delle variabili della sfida del Quirinale alla quale non è estraneo, Draghi resterà a Palazzo Chigi solo se gli sarà consentito di condurre decisamente in porto una profonda europeizzazione delle politiche nazionali: una vera e propria quadratura del cerchio nell’anno che precede le elezioni politiche generali.
Le forze politiche italiane stentano a riposizionarsi dopo una legislatura così altalenante. Lei pensa che potrà sopravvivere un bipolarismo forzato che tiene insieme coalizioni così diverse e perfino conflittuali al loro interno?
Il bipolarismo in Italia è esistito solo nelle elaborazioni dottrinali e nei proclami elettorali, mai nella concreta prassi politica e parlamentare. La Costituzione è storicamente figlia del CLN, essa è tendenzialmente pluralista e proporzionalista e i grandi partiti non hanno mai veramente inseguito prospettive bipolari. Difatti non abbiamo avuto governi di destra o di sinistra, ma di centrodestra o di centrosinistra. Il bipolarismo è storicamente tanto più inattuale in una stagione di deideologizzazione della politica e di mutamento di fondo della declinazione degli stessi concetti di destra e di sinistra. E’ un fatto che, in questi anni, il vero fattore di distinzione e di divisione tra le forze politiche è stato il rapporto con l’Europa e con tutto ciò che l’opzione europeista comporta. Altro è il dibattito sugli effetti spesso paralizzanti del mero proporzionalismo e sulla necessità di supportare una democrazia realmente governante attraverso strumenti di rafforzamento del potere esecutivo e disincentivi alla dispersione. L’elezione dei Sindaci e dei Presidenti delle Regioni è senza dubbio una esperienza di riforma maggioritaria positiva. Ma è difficile pensarne una trasposizione nazionale senza una riforma dell’impianto costituzionale, ad esempio sul modello francese delle elezioni a doppio turno e del presidenzialismo.
Infine si muove qualcosa di nuovo a sinistra e per meglio dire in quel campo riformista che sembra irrimediabilmente incapace di assumere forme forza e leadership in Italia?
Io penso che l’Italia che uscirà dal tunnel dell’emergenza Covid sarà alquanto diversa da quella che vi è entrata, nel senso che una così prolungata sofferenza del Paese cambierà inevitabilmente la sua domanda politica. L’ubriacatura populista che ha connotato le ultime elezioni e l’avvio di questa legislatura (governo Conte-Salvini-Di Maio) è definitivamente smaltita, ma alle insicurezze e alle paure introiettate in tanti anni di emergenza non è pensabile di rispondere riproponendo le ricette tradizionali della politica. Si è detto che il governo Draghi ha significato il commissariamento della politica. Io penso che Draghi non abbia messo fuori gioco i partiti, ma abbia aperto loro un terreno di riflessione e di responsabilità che li costringe tutti a rinunciare ad ogni alibi tattico. Lo stesso dicasi per i sindacati. In questo senso Draghi rappresenta una opportunità storica irripetibile perché l’approccio riformista non sia una variante minoritaria degli schieramenti, bensì il loro carattere portante. Non sto dicendo che Draghi è il nuovo leader aggregatore di un’area riformista finalmente capace di imporsi in maniera autorevole nel confronto politico e parlamentare. Intendo significare che Draghi ha dimostrato che una posizione riformatrice rigorosa, che parli chiaro agli italiani e che smantelli le narrazioni populiste presenti sia sul fronte destro che sinistro del panorama politico nazionale, può ambire a segnare la rotta di governo per un Paese che è più maturo ed avanzato della sua rappresentanza politica, ivi compresa quella finora assicurata dall’inconcludente narcisismo di leader presuntuosi e litigiosi.