Questa domenica per “Le Grandi Interviste” ho avuto il piacere di dialogare con Maria Irene Bellini. Una giovane e brillante donna in carriera considerata uno dei tanti “cervelli in fuga” e che si occupa di chirurgia. Noi siamo molto felici che abbia accolto il nostro invito. Prima di entrare nel vivo dell’intervista una mini bio di Maria Irene Bellini. Buona lettura!
Maria Irene Bellini laureata in Medicina e Chirurgia all’Università Roma Tor Vergata, con la passione per i trapianti d’organo. Nel 2013 ha vinto una borsa per un dottorato e si è trasferita a Oxford, dove era in atto un trial clinico innovativo sull’utilizzo di una macchina per la preservazione del fegato. Dopo 2 anni, le viene offerta una posizione da senior fellow a Londra, Imperial College NHS Trust e diventa la leader nazionale per l’ASGBI (Association of Surgeons of Great Britain and Ireland) sezione women in surgery. Oggi lavora presso l’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma.
Nell’immaginario tradizionale la specializzazione chirurgica è affare di uomini, restando le donne medico confinate ad altre branche mediche. La realtà ci racconta altro. Sempre più donne si specializzano in chirurgia e, addirittura per molte discipline, le donne hanno ormai superato in percentuale gli specializzati uomini. Quando e perchè ha scelto di diventare medico chirurgo?
La ringrazio per la domanda. Purtroppo quello a cui lei si riferisce è vero; la chirurgia viene ancora oggi troppo spesso considerata un “affare da uomini”, o come dicono gli Anglosassoni “An old boys club”. La realtà ci dice che sebbene le studentesse che passino il test per l’ingresso alla facoltà di medicina siano in numero più della metà, anzi a volte tocchino anche il 60% degli iscritti, tali percentuali calano drasticamente a mano a mano che si prosegue nella carriera accademica/lavorativa. Quello che accade cioè è che inesorabilmente il rapporto si inverte andando avanti nel percorso di formazione specialistica o quando si tratta di ricoprire ruoli con maggiore responsabilità. Non è però un fenomeno solo della chirurgia, ma direi di tutte quelle professioni in cui è richiesta una presenza carismatica e una forte leadership, una caratteristica, molto importante nella professione chirurgica. Il chirurgo (o la chirurga) è infatti l’ultimo (a) responsabile sulla vita di un paziente, dalla sua decisione di intervenire o meno, dipende l’esito di molti mali altrimenti incurabili, uno fra tutti il cancro, senza trascurare la capacità di guidare un’intera equipe in sala operatoria, spesso in momenti difficili e dove pochi attimi o incertezze possono essere fatali.
Personalmente sono sempre stata incline a rappresentare la team leader: mi ricordo alle medie ero la capoclasse, alle superiori guidavo diversi progetti interdisciplinari, poi all’Università studiando le varie materie e frequentando i diversi reparti, ho sentito subito il fascino della sala operatoria, della reale possibilità di mutare il corso egli eventi e lì ho deciso di intraprendere la carriera chirurgica.
A fronte del numero crescente, e a volte maggioritario, delle donne chirurgo, i posti di primario sembrano essere monopolizzati da uomini. Come si vince questo gender gap? E come conciliare famiglia, maternità e un lavoro apparentemente senza orari?
Il punto fondamentale è permettere che nella nostra Società la maternità non sia vista come un handicap, ma come un’assoluta normalità. Non si può durante i colloqui di lavoro, chiedere alle candidate se sono sposate, hanno figli o se pensano nel futuro di averne, è discriminatorio oltre che retrogrado. C’è ampia dimostrazione in letteratura del modello di diversity nel business, dove alla diversità dei component di un’industria, si accompagnano maggiori profitti, oltre che migliori politiche lavorative, sia per le donne, che per gli uomini. La Società in primis, ma anche la struttura aziendale, devono assicurare alla lavoratrice un supporto reale, al di là degli asili nido. Un esempio per tutti: alle conferenze ci devono essere delle sale per allattare, così che anche le mamme possano parteciparvi, ai genitori si potrebbero ridurre le quote associative per le diverse Società Scientifiche, alle neo-mamme (o ai papà che lo chiedano) assicurare orari più flessibili, senza per questo dover rinunciare al proprio percorso formativo, ma offrendo soluzioni alternative. L’e-learning, di cui tanto si parla durante questa pandemia, potrebbe davvero rappresentare la chiave di volta per il futuro, favorendo un’istruzione più equa, ma anche una dimensione aggiuntiva, laddove le attività in persona hanno una limitazione di tipo tempo/luogo.
La chirurgia richiede continui aggiornamenti nelle tecniche e, dunque, continui scambi internazionali. La Brexit per la Gran Bretagna e le restrizioni nelle politiche di frontiera in America possono condizionare negativamente il processo di aggiornamento dei chirurghi italiani e dell’Europa continentale?
Sicuramente la Gran Bretagna soffrirà delle limitazioni che la Brexit imporrà, sopratutto perché al di là della necessità di professionisti con competenze specialistiche che l’Europa forniva, ci sarà anche un drastico calo di finanziamenti dei progetti di ricerca da parte dell’EU. La crisi è e sarà anche delle Università, le maggiori beneficiarie nei passati progetti Horizon, le quali diventeranno meno attrattive per studenti e ricercatori europei. Pur tuttavia, resta sempre il fatto che il National Health service (NHS) è un ottimo sistema e consiglio a tutti un periodo all’estero per confrontarsi con una realtà diversa.
Quali specificità ha la chirurgia trapiantistica e perché ha scelto questa branca in particolare?
Come accennavo in precedenza, sono affascinata dalla possibilità di poter porre rimedio a situazioni altrimenti considerate senza via d’uscita. Nell’insufficienza d’organo terminale, vi è la dimostrazione che sostituire un organo non più funzionante con uno invece metabolicamente attivo, può donare vita, anzi direi che dalla morte si dona la vita, considerando infatti che la maggior parte dell’attività trapiantologica deriva da donatore cadavere. Inoltre, la trapiantologia è molto attraente anche da un punto di vista di ricerca scientifica, basti pensare che il primo trapianto di rene è stato eseguito nel 1954 e i progressi dell’ingegneria biomolecolare nell’indurre la tolleranza immunologica, nel produrre organi bioartificiali e nel riparare organi altrimenti ritenuti non trapiantabili, sortiranno effetti inaspettati nei prossimi decenni.
Ci parli del suo libro sulla Gender Equity
Una delle mie più grandi passioni è l’insegnamento; sono infatti in continuo contatto con studenti/esse su progetti di ricerca vari per trasmettere loro l’entusiasmo per la medicina e la chirurgia. Proprio per cercare di contrastare alla radice lo stereotipo di genere e invertire il fenomeno per cui nelle professioni chirurgiche, ma anche in quelle mediche con livelli di responsabilità più elevati, le donne sono poco rappresentate, ho lanciato un progetto internazionale, con contribuiti dai 5 continenti sulle diverse realtà e problematiche inerenti la parità di genere nelle professioni sanitarie: https://www.igi-global.com/book/gender-equity-medical-profession/222285. Nel libro, viene fornita una descrizione comprensiva pluriprospettica sulle strategie da adottare per il raggiungimento della parità di genere nella comunità medica e all’interno del mondo accademico, con una crescente domande da parte delle librerie universitarie per permettere ai propri studenti e studentesse di accedere ad una risorsa pronto-uso nel contrastare eventuali comportamenti discriminatori.
Lei ha fatto attività per Woman in Surgery, ci può spiegare meglio?
Il mio intento è stato quello di capire quali sono le reali motivazioni e le percezioni delle aspiranti/esercenti chirurghe per cercare di intervenire alla radice tramite l’azione di enti e istituzioni dedicati, come ad esempio l’Associazione dei Chirurghi della Gran Bretagna e dell’Irlanda, per cui sono la leader dell’iniziativa “Women in Surgery”, ovvero “Donne in Chirurgia” (https://bmjopen.bmj.com/lookup/pmidlookup?view=long&pmid=30617103), (https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/0141076819854194?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori:rid:crossref.org&rfr_dat=cr_pub%20%200pubmed).
Partiamo dal titolo: è molto importante familiarizzare con il binomio donna-chirurgia, per diffonderlo nella cultura comune, in modo che non rappresenti più un “ossimoro”, ma qualcosa conciliabile e reale. A tal proposito ho ideato una serie #HowIBecameAWomanInsurgery, “Come sono diventata una donna chirurgo”, proprio per fare luce al percorso formativo e alle difficoltà che diverse donne di successo hanno superato per soddisfare le proprie ambizioni, in modo che le stesse possano fungere da faro per coloro che si apprestano ad intraprendere un percorso simile. Tutti hanno bisogno di “mentori” e modelli reali da seguire, per cui sono fortemente contraria ad organismi decisionali completamente maschili, o ai cosiddetti manels (male-panels), parte integrante e perpetrante dello stereotipo di genere. I social media in questo hanno un potere di penetrazione straordinario: ho svolto le mie campagne tramite twitter e facebook (https://www.facebook.com/groups/1607275052681036) con una partecipazione e un riscontro internazionale. Non tutti infatti hanno nel proprio ambiente formativo la possibilità di conoscere donne di successo nella professione chirurgica, che possano essere anche un supporto in tempo reale alle difficoltà incontrate quotidianamente. Il mio motto è “You cannot be what you cannot see”, che, tradotto in italiano significa: “Non puoi essere ciò che non vedi”, per cui: Più siamo e più diventeremo! (https://blogs.bmj.com/bmj/2019/01/10/mariairene-bellini-women-in-surgery-if-you-can-see-it-you-can-be-it/)