Questa domenica per “Le Grandi Interviste” abbiamo l’onore di intervistare Tatjana Rojc che non è soltanto una importante rappresentante al Senato della Repubblica, ma è anche una grande personalità del mondo della cultura, dell’arte italiana ed europea. Rojc, nata a Trieste, si è dedicata ad autori come Srecko Kosovel, France Balantic, Alojz Rebula, Miroslav Košuta e Boris Pahor, che la considera l’interprete più approfondita della sua opera. Il suo ultimo romanzo, in lingua italiana, prima di diventare Senatrice: “La figlia che vorrei avere”. Buona lettura!
Tatjana Rojc, triestina di madrelingua slovena, docente, letterata, traduttrice, sceneggiatrice, scrittrice. E’ stata eletta al Senato come indipendente nel 2018 nelle liste del Partito Democratico a cui ha aderito nel 2019. Una domanda di rito: non avendo mai fatto politica attiva, come ha vissuto questo salto dalla cultura alla politica?
Ritengo che ogni azione di cultura sia di fatto una azione pubblica con una sua valenza politica. Chi, come me, ha sempre vissuto in un luogo particolare come è l’entroterra triestino con le sue radici plurime, dove la Storia ha avuto un ruolo determinante nel coniare i destini dei singoli, è abituato a valutare, considerare, approfondire per comprendere l’altro, per cercare di costruire un dialogo nel reciproco rispetto. Per quanto mi riguarda, però, il passaggio alla politica attiva non è stato facilissimo, seppur certamente molto importante. Sono stata suggerita come candidato dalla minoranza slovena in Italia: durante tutto il Dopoguerra la sinistra ha sempre garantito nelle proprie liste un posto eleggibile in parlamento a uno sloveno, e quindi, quando dal Partito Democratico è arrivata la proposta di essere inserita in una rosa di candidati, ho ritenuto doveroso mettere al servizio della mia comunità, della società, del territorio, la mia esperienza. E’ necessario, però, che sottolinei il passaggio determinante che non avevo considerato: come, cioè, lo studio e la scrittura rappresentino una attività che necessita di grande autodisciplina, in cui ci si confronta perlopiù con se stessi, con i propri limiti, ma nel silenzio del proprio mondo interiore. La politica, invece, determina un approccio del tutto diverso: mi sono improvvisamente ritrovata in un mondo nuovo e sconosciuto, in quell’Aula di cui ho grande rispetto, dove ho potuto conoscere da vicino personalità che segnano il passo della vita del Paese. Alcune mi hanno convinta da subito, altri meno. Anche il confronto con i temi di cui non mi sono mai occupata in maniera diretta, concreta, è stato una scoperta. Come membro della Commissione Difesa ho avuto, ad esempio, modo di approfondire temi di politica estera, ma anche questioni di sistemi di difesa. La differenza maggiore, però, tra la mia vita precedente e quella attuale, è nel lavoro collettivo, nel continuo confronto con gli altri, nella parola che costituiva il mio mondo interiore, ed è ora rivolta all’esterno, è dunque diventata pubblica.
La politica è un contesto dove tutto diviene possibile e influisce in maniera diretta sulla vita dei singoli e del Paese.
Si, ritengo il mio un impegno per il bene comune che diviene più importante del bene individuale. Una grande lezione di umiltà, mediazione, resilienza che si colloca entro un sistema di valori nei quali mi riconosco e che ritrovo per gran parte nel mio partito: una intesa di anime diverse, una pluralità di vedute che originano in valori come la libertà, l’antifascismo, il rispetto dell’altro, la giustizia sociale. In qualche modo una ricerca che parte dalla Rivoluzione francese e che si concretizza nella Magna carta della nostra Repubblica. Ho grande ammirazione per il Presidente Mattarella che, nonostante il suo difficile percorso personale, segue un codice etico e morale di grande respiro, sapendo trarre profonda saggezza dalla propria esperienza politica. I tempi difficili e incerti che stiamo vivendo ci costringono a rivedere molti valori che definiscono noi stessi nel contesto della vita sociale e del Paese in generale. Quindi affrontare le difficoltà dei cittadini tutti determina l’attenzione nei confronti di chi si pone domande sulla nostra condizione di uomini, innanzitutto. Di uomini che stanno imparando la resilienza, la possibilità, dunque, di trovare ex novo la propria essenza, ciò che ci definisce nei confronti dei nostri simili. Stiamo imparando a resistere di fronte a quei pseudo valori che si sono insinuati nella nostra vita e che hanno del tutto snaturato la nostra condizione umana. Forse questa pandemia ci sta insegnando più di quanto avremmo pensato all’inizio.
Da appartenente alla comunità slovena segue con particolare interesse anche i rapporti tra l’Italia e la Repubblica di Slovenia. Cosa potrebbe dirci a questo proposito?
Apparentemente la distanza tra Roma e Lubiana potrebbe sembrare enorme. Eppure proprio il Presidente Mattarella ha dimostrato più volte, anche a me personalmente, la sua attenzione nei confronti della nostra minoranza, della vicina Repubblica, di ciò che attiene al cosiddetto confine orientale (va ricordata l’amicizia tra i Presidenti Mattarella e Borut Pahor che contraddistingue e facilita questi rapporti). Ho la percezione che proprio nel corso di questa Legislatura molte cose si siano evolute: i ministri con cui ho parlato seguono con interesse i rapporti sloveno-italiani. Molti colleghi di partito si informano sul quadro politico in Slovenia, su temi transfrontalieri e mi sostengono nel cercare soluzioni ai problemi che possono sorgere. E ritengo estremamente importante anche il rapporto di grande fiducia con la minoranza italiana in Slovenia e Croazia.
Diverso è, naturalmente, il rapporto con i rappresentanti dei partiti sovranisti che, soprattutto in occasione di alcune ricorrenze, continuano a mantenere il vecchio atteggiamento di sfida, sostenendo il proprio ragionamento attraverso vecchie logiche che hanno avuto la capacità di dividere, invece di cercare un comune denominatore per una definitiva pacificazione che si fonda principalmente sul rispetto delle singole memorie, del male subito e sofferto, del diritto di piangere ciascuno le proprie vittime. E ciò vale anche per alcuni politici della mia Regione che non vogliono conoscere i fatti, ma costruiscono le proprie esternazioni basandosi su delle verità precostituite.
Il suo impegno in politica, però, è anche quello di avere una particolare attenzione nei confronti del mondo della cultura.
Ho avuto la fortuna di poter conoscere e lavorare nel contesto di vari mondi: quello della letteratura, quello della musica, di collaborare con personalità di grande spessore con cui mi sono confrontata nel mondo della ricerca, in quello accademico, quello dell’arte, del cinema, del teatro. Sono realtà estremamente importanti che definiscono, per quanto mi riguarda, il mondo che ci circonda. La mia formazione è stata molto composita, sono laureata in Lettere, ma ho studiato canto e ho poi lavorato come sceneggiatrice, traduttrice, docente di Traduzione e di Letterature comparate. Ho curato la regia di documentari. Ho scritto molto, soprattutto di letteratura, ma mi sono occupata anche di musica sacra e musica da camera. Nulla di quanto io abbia approfondito mi è sembrato vano o inutile. Mi ritengo fortunata, perché ho potuto immergermi in qualcosa che amo profondamente e che ho sempre affrontato con impegno, ma che molti pensano rappresenti una specie di anarchia. Non è così: la cultura necessita di grande preparazione, studio, approfondimento. Dostoevskij diceva che sarebbe stata la bellezza a salvare il mondo. L’Italia è riconosciuta nel mondo per il proprio senso del bello, per la cultura. E non accetto chi dice che ‘di cultura non si mangia’: mi sono posta come uno degli obiettivi per me più importanti quello di sostenere questa realtà dalla quale provengo, in cui lo spessore dei singoli è determinato dal sapere, dalla preparazione e in cui non c’è spazio per l’improvvisazione dilettantistica. Nei nostri conservatori si formano grandi professionalità che poi sono costrette a vivere nel precariato, perché lo Stato, ma soprattutto la società non ha alcuna attenzione nei loro confronti. Lo stesso discorso vale per i traduttori, specie quelli letterari, costretti a contrattare i propri compensi a volte veramente miseri. E potrei continuare…non possiamo pensare di appuntarci al petto la medaglia della cultura italiana come eccellenza riconosciuta nel mondo, ma poi non dare alcuna possibilità ai giovani che scelgono di intraprendere questa strada, di poter vivere una vita dignitosa, di progettare il proprio futuro. Lo stesso discorso vale per i teatri o per tutto il mercato del libro che dobbiamo sostenere, dialogando con chi è coinvolto in prima persona.
Il nutrito elenco delle sue pubblicazioni spazia tra il mondo sloveno e quello italiano fino ad arrivare al suo ultimo romanzo, questa volta in lingua italiana, “La figlia che vorrei avere”, uscito a dicembre del 2017, pubblicato da uno degli editori più interessanti in campo nazionale, La nave di Teseo di Milano. Qual è il suo rapporto con la sua lingua madre e con gli autori di cui si è occupata?
La mia lingua madre è lo sloveno, una lingua straordinaria, la mia lingua del cuore, nella quale mi riconosco, che echeggia nella mia mente come una preghiera. C’è, evidentemente, presente come un archetipo, la paura vissuta dalla mia gente durante il fascismo: la generazione dei miei genitori ha vissuto la violenza dell’umiliazione e di una snazionalizzazione forzata, imposta dallo squadrismo prima e dal fascismo poi in terra giuliana grossomodo dal 1920, da quando, cioè, dopo il Trattato di Rapallo, il territorio della Venezia Giulia, abitato da circa mezzo milione tra sloveni e croati, venne assegnato all’Italia. La violenza ebbe inizio nel 1920, ben prima, dunque, dell’ascesa al potere di Mussolini. E si sa che lo squadrismo fascista nacque proprio a Trieste, dove vi furono incendi, devastazioni, vessazioni, morti. I miei genitori hanno avuto il cognome e il nome italianizzati, hanno vissuto in un clima di paura, in una condizione che li costringeva a divenire altro da sé, come ‘giovani senza gioventù’, come ebbe a dire uno dei miei autori, il grande Boris Pahor. Per quanto mi riguarda, ritengo illuminante il pensiero dello scrittore istriano Fulvio Tomizza, quando scrive: “…devo saldare la mia necessaria molteplicità con il cemento della coerenza, costi pure essa solitudine, silenzio, rinuncia, dimenticanza. Soltanto così la frontiera può rovesciarsi in oasi di pace (…) dove accanto alle reliquie di antichi idiomi persistono la lealtà e il rispetto dell’altro….”
Chi vive il confine come finis terrae non potrà comprendere quale sia, invece, l’opportunità che una frontiera, sia essa geopolitica o linguistica e culturale, rappresenti se intesa nella sua accezione di frons. Ho cercato, dunque, nel mio lavoro, di far dialogare intimamente le mie due identità, quella slovena che ho avuto per nascita, e quella italiana che ha accompagnato la mia formazione. Mi sono occupata molto di far conoscere in Italia i grandi autori sloveni. Il primo passo nel mondo della dualità letteraria è legato alla Magna Grecia, dove in nome della poetessa Nosside mi è stata pubblicata una silloge bilingue. Ho avuto la fortuna di incontrare in seguito Elisabetta Sgarbi, allora a capo della Bompiani, di collaborare con lei per i lavori cinematografici che ha dedicato a Trieste e al mondo sloveno tout court, di proporle due nomi che lei ha fatto suoi, Boris Pahor e Alojz Rebula, a cui sono molto legata. A Pahor abbiamo voluto dedicare una monografia in occasione del suo centesimo compleanno dal titolo “Così ho vissuto. Biografia di un secolo” pubblicata a Lubiana e poi dalla Bompiani, appunto. Ho seguito Elisabetta anche nel suo straordinario festival della “Milanesiana”, di cui ho avuto l’onore di essere ospite, e poi di seguirla ancora quando, con Umberto Eco, ha fondato la casa editrice indipendente de La nave di Teseo. E allora fu proprio Elisabetta, intellettuale di rara sensibilità, a propormi di ‘mandarle qualcosa’. E ho ripreso in mano un manoscritto che raccoglie perlopiù racconti di donne, di gente, della mia terra, che è la mia matrice, e ne ho fatto una storia, dove i destini umani sono intimamente connessi ai ritmi della grande storia e della natura nel contempo. E ovunque io ne abbia raccontato, in tutta l’Italia, in Calabria, terra che adoro, o a Napoli, in Piemonte, come in Abbruzzo, ovunque tutto è stato compreso, fatto proprio dai lettori. E’ come se, a tratti, avessi raccontato anche la loro storia: esiste dunque davvero un filo rosso che ci unisce tutti in quella comunità straordinaria che si chiama umanità. Non ho riflettuto in quale lingua scrivere, perché evidentemente inconsciamente avevo voluto affrontare determinati temi attraverso il filtro di una lingua acquisita, per poter renderli in maniera più obiettiva. Il romanzo è uscito qualche settimana prima dell’inizio della campagna elettorale che mi ha portata al Senato. E da allora, presa da questa nuova realtà che mi ha completamente assorbita, ho dovuto temporaneamente riporre i libri nel cassetto, dove stanno aspettando il mio tempo.