Questa domenica per “Le Grandi Interviste” ho avuto il piacere di dialogare con l’imprenditore Paolo Agnelli che ricopre le cariche di Presidente del gruppo Alluminio Agnelli e Presidente di Confimi Industria. Agnelli è stato tra gli imprenditori più attivi nell’emergenza Coronavirus. I temi sui quali ci siamo soffermati in questa intervista sono: il lavoro, il decreto Ristori, il recovery Fund e l’impatto della pandemia sul manifatturiero. Prima di entrare nel vivo dell’intervista una mini bio del Presidente Paolo Agnelli. Buona lettura!
Paolo Agnelli è industriale bergamasco di terza generazione, con due figli entrambi impegnati nel Gruppo Agnelli. Insieme al fratello Baldassare guida oggi l’omonimo Gruppo, che comprende 13 aziende ed è leader nel settore dell’estrusione dell’alluminio, delle pentole professionali e ha interessi nel campo dell’editoria, della finanza e dello sport professionistico e dilettantistico. Complessivamente il Gruppo Agnelli occupa oltre 350 persone con un fatturato di oltre 150 milioni di euro. Coprono inoltre il 30% del mercato mondiale, rivolgendosi soprattutto a chef e aspiranti tali. E’, inoltre, Socio Fondatore e Presidente di Confimi Industria (Confederazione dell’Industria Manifatturiera e dell’Impresa Privata).
Con oltre 40mila imprese associate e un fatturato aggregato di quasi 80 miliardi di euro, Confimi Industria rappresenta una parte enormemente significativa dell’industria italiana. Qual è l’impatto che la pandemia da Covid-19 sta avendo sul comparto manifatturiero? E in particolare, quali sono i singoli settori che stanno pagando il prezzo più alto alla crisi, e quali invece mostrano maggiore resilienza?
Il primo lockdown aveva fermato le macchine creando inizialmente forti preoccupazioni per un fatturato che si immaginava perso. Con la riapertura invece abbiamo assistito a un fenomeno forse insperato e il riavvio delle commesse lasciava ben sperare. Questa nuova battuta di arresto, decisamente più soft, non ha fermato per il momento l’industria. Ci sono però delle filiere del manifatturiero che sono state colpite indirettamente. Bar e ristoranti, ad esempio, sono le punte di diamante di una filiera di piccole e medie imprese legate senz’altro al settore agroalimentare, il famoso food&beverage, ma non possiamo dimenticarci di tutte quelle aziende che realizzano strumenti di cottura, utensili da cucina, di macchine professionali. Per non dimenticarci di nessun settore in particolare, possiamo dire che a rimetterci maggiormente sono tutte le imprese di beni e servizi alla giornata. Se oggi non bevi un caffè al bar, non è che domani ne berrai due. Ma se trovi il negozio di scarpe chiuso, semplicemente rimanderai l’acquisto.
Per compensare le attività costrette a chiudere dai provvedimenti adottati per contenere la seconda ondata epidemica, il governo ha emanato, con il Decreto Ristori, misure volte a destinare contributi a fondo perduto alle categorie colpite. Si tratta di un provvedimento che segue la strada corretta? I fondi stanziati sono sufficienti? E in che modo, secondo lei, le istituzioni dovrebbero intervenire per dare sostegno alle imprese così duramente colpite da questa crisi?
Condivido le modalità di somministrazione del provvedimento con il versamento del credito direttamente sul conto corrente del beneficiario. Certamente le somme non possono aspirare a essere davvero un ristoro del fatturato perso anche perché si rifanno al più al 150% di quelle già percepite in primavera, pensate probabilmente per uno stop momentaneo e non così prolungato. Trovo quindi piuttosto controverso il meccanismo che determina l’entità del ristoro. E soprattutto, sbaglio o per le nuove aperture, quelle avvenute magari proprio in estate, non sono previsti aiuti?
Il governo ha prorogato le misure, già adottate in primavera, del blocco dei licenziamenti legato al prolungamento della cassa integrazione, la cosiddetta Cig-Covid, fino al 31 marzo 2021. E mentre sul fronte dell’organizzazione del lavoro incentiva l’uso dello smart working, la ministra Catalfo prepara la riforma degli ammortizzatori sociali. Le misure emergenziali sin qui adottate sono andate nella giusta direzione? In che modo occorrerebbe intervenire? E in che modo dovrà cambiare l’organizzazione del lavoro, anche sul piano contrattuale e degli ammortizzatori sociali, una volta finita l’emergenza della pandemia?
Posticipare il termine del blocco dei licenziamenti da fine anno al 31 marzo del 2021 non è di certo una soluzione, quanto il protrarsi di una situazione – quella dell’occupazione – che non ha futuro se non si decide di intervenire sui fattori determinanti per le aziende, le uniche che realmente creano posti di lavoro. Le misure di pura assistenza accentuate in questo periodo di crisi da pandemia andrebbero sostituite con misure strutturali che rendano competitive le migliaia, anzi i milioni di piccole e medie imprese. Oggi le pmi stanno soffocando e a soffocarle è proprio lo stato. È come voler continuare a spremere le rape. Cosa si pensa di tirar fuori?
La nuova organizzazione del lavoro, il tanto sospirato smart working non è di certo un vocabolo accostabile alla manifattura. Un inglesismo che, talvolta, è perfino da impedimento se pensiamo a come si sono ulteriormente allungati i tempi di risposta di istituti di credito, enti e amministrazione pubblica.
Il piano Next Generation Eu (noto anche come Recovery Fund) proposto dalla Commissione Europea, prevede per il nostro paese, tra sussidi e prestiti, fondi in arrivo nella primavera del 2021 per un ammontare complessivo di circa 207 miliardi. Qual’è la strada, in termini di investimenti e riforme, che l’Italia dovrebbe seguire, per non sprecare questa occasione di rilancio del suo sistema industriale ed economico?
Utilizzare questi fondi per l’industria. Manifatturiera e non. L’unica vera occasione di rilancio sarebbe far tornare le nostre imprese a competere sui mercati internazionali ad armi pari con i loro competitor. La mia proposta? Possiamo riassumerla in un 101010. Ridurre del 10% le accise che gravano sul costo dell’energia, tagliare del 10% il costo del lavoro e quindi del cuneo fiscale e intervenire con un meno 10% sulla tassazione delle imprese. Questo vorrebbe dire investire nella crescita dell’economia italiana e quindi del paese.