Grazie a Sergio Ragone per aver voluto offrire il suo commento sul terremoto a 40 anni dal 23 novembre 1980 a questo portale. Buona lettura!
Io non c’ero. Non c’ero alle ore 19:35 del 23 novembre del 1980. Non l’ho sentito.
Sono nato qualche mese dopo, nel febbraio del 1981, ma per tutta la mia vita è come se in quel maledetto giorno di novembre ci fossi stato anche io. Da sempre viviamo con quel ricordo, con quelle immagini di morte e devastazione attaccate alle pareti della moria collettiva. Anche chi non c’era sente sua quella memoria. Anche chi è venuto al mondo dopo, come me, sa che quei 90 secondi di paura hanno cambiato per sempre la vita di chi ha visto la propria casa crollare e insieme ad essa tutta una vita di certezze, sudore, sacrifici, sangue e lacrime. Da sempre noi che viviamo in quel cratere, così come in tutta Italia, viviamo con la paura addosso. Ogni piccolo sussulto della terra abbiamo i terrore che possa essere solo l’inizio di una drammatica sequenza di scosse. La vita di tutti noi è cambiata da quella domenica, negli anni a venire una nuova normalità ha preso forma e su di essa ci siamo adagiati rendendo normale quello che prima era solamente impensabile. Convivere con la fragilità della natura, con la sua perenne evoluzione, dare del tu a quella paura, che un giorno potrebbe ritornare, e nonostante tutto andare avanti, costruire, generare futuro, pianificare progetti, piantare semi che un giorno diventeranno frutti. Non so dire se sia giusto fare un paragone tra quei giorni e questi qui martellati dalla pandemia, ma se è vero che la storia è maestra dovremmo pur imparare qualche cosa dagli avvenimenti che segnano date fisse sul calendario dell’umanità. Innanzitutto il rispetto del dolore, nostro e degli altri, e delle paure; il senso di comunità che ci ha reso grandi, facendoci superare, insieme, quella montagna che sembrava impossibile da scalare.
Chi c’era racconta spesso di come era naturale l’aiutarsi, ospitando nelle proprie case chi non aveva più nulla, dividendosi il pane e la minestra, il tetto ed un letto per dormire. Gli abbracci, certo, ma soprattutto i fatti. Tangibili, concreti, visibili. Aiutare, senza chiedere nulla in cambio, per ribaltare un destino e cambiare il corso degli eventi. Non lasciare nessuno da solo. La chiamano resilienza, termine talmente abusato da esser diventato ormai stridente come il rumore delle unghie che graffiano una lavagna. E possiamo trarre insegnamenti anche dagli errori commessi, dagli imperdonabili ritardi nonostante quel “Fate Presto”, dalle speculazioni degli anni a venire, da chi ha truffato e soggiogato i più deboli, i più indifesi, gli ultimi e i penultimi.
Forse soprattutto questo può e deve essere il più importante insegnamento che possiamo rendere attuale: non permettere più che i molti paghino gli errori fatti dai pochi. Ricordare quella tragedia in questo anno mutilato dal Covid, con morti e infetti che ogni giorno aumentano, non è certamente un esercizio di retorica, buono per qualche intervista o discorso da tenere in pubblico. Ricordare è avere una bussola per non perdersi. Ricordare è resistere.
Nel suo ultimo intervento pubblico, durante i lavori di apertura dell’edizione 2020 del Meeting di Rimini, Mario Draghi ha indicato le tre le tre qualità indispensabili a coloro che sono in posizioni di potere: “la conoscenza per cui le decisioni sono basate sui fatti, non soltanto sulle convinzioni; il coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze, poiché l’inazione ha essa stessa conseguenze e non esonera dalla responsabilità; l’umiltà di capire che il potere che hanno è stato affidato loro non per un uso arbitrario, ma per raggiungere gli obiettivi che il legislatore ha loro assegnato nell’ambito di un preciso mandato”. Prendere appunti, please.
Ma una società, una comunità largamente intesa, è composta anche da persone, cittadini che non hanno responsabilità di governo ma solo individuali. Sarà responsabilità di ognuno di noi costruire il giorno dopo questa pandemia, quando la scienza avrà compiuto il suo mestiere, con i vaccini che sembrano in dirittura d’arrivo, e toccherà a noi non sprecare più occasioni e tempo per essere diversi, si spera migliori, pronti a vivere quella che sarà la nostra nuova normalità. E spetterà sempre a noi non dimenticare troppo in fretta quella lezione e questa che ancora viviamo sulla nostra pelle.