Poche parole per introdurre la mia rubrica “Basilicata. La storia, la politica, il suo popolo”.
Ritengo che la conoscenza sia una grande risorsa, come anche un’ottima opportunità di crescita, e sono convinta che entrare nelle radici profonde di un territorio, specialmente in quelle del proprio territorio, sia un’esperienza che richiede tempo, sacrificio e dedizione per crescere con consapevolezza.
E’ un po’ come ricostruire l’albero genealogico della propria famiglia perché, in fondo, la Basilicata è una grande famiglia.
La mia rubrica rappresenta il mio impegno per i lettori lucani e non, per questo mi auguro che siate invogliati a leggere le storie che vi propongo con la stessa forza che mi caratterizza e mi induce a divulgare quanto più possibile la bellezza delle radici a cui appartengo. Raccoglierò le testimonianze di quanti hanno concorso a realizzare il quadro politico e la storia della Basilicata, utilizzando al meglio le potenzialità del territorio.
Buona lettura!
Rosita Stella Brienza
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Un viaggio diventa più potente quando si pensa che non solo non è finito, ma che è appena cominciato. Ma per farlo bisogna avere pazienza, coraggio, forza d’animo e forse anche un po’ di incoscienza. L’intervista a Salvatore Adduce muove i suoi primi passi da un monito che era quello di Antonio Luongo “La storia non si fa con il senno del poi”. E in effetti sarebbe troppo facile fare analisi storica saltando il compito delicato del saper sentire, del saper annusare quelle trasformazioni che anticipano il succedersi degli eventi. Ma nonostante sia chiara la capacità di visione e l’esperienza che comincia e continua nei primi anni Settanta, anche Salvatore Adduce, proprio come Gianni Pittella, decide di rimanere dietro le quinte e di non candidarsi mai più.
Cento anni fa nasceva in Partito Comunista Italiano: quali sono stati i meriti e i demeriti del Pci nella storia dell’Italia Repubblicana?
La storia non si fa dopo, si fa prima e si fa durante. Soprattutto non si fa con il senno di poi. Personalmente appartengo a quella categoria, o se vogliamo appartengo alla scuola di un mio vecchio amico e compagno, Antonio Luongo, il quale ci ricordava sempre che l’analisi del voto non si fa dopo il voto, si fa prima del voto perché tutti sono bravi a fare l’analisi quando si hanno in mano i risultati.
Il compito di una classe dirigente è quello di saper anticipare, saper annusare l’aria, capire cosa si muove tra le persone. A cento anni di distanza è abbastanza facile dire, come è stato rilevato in questi giorni nel congresso di Livorno, il barbaro che era alle porte sembrava non esistesse. Questo racconta dell’assoluta inadeguatezza dell’analisi politica che, in quel momento, i socialisti e quelli che sarebbero diventati comunisti successivamente facevano della congiuntura che avrebbe portato alla tragedia del fascismo in Italia.
E’ evidente che se ci fosse stata un’altra consapevolezza, la situazione sarebbe cambiata.
Qual è il personaggio del Pci che esprime ancora oggi quegli ideali che le appartengono?
Se dobbiamo parlare del Partito Nazionale, sicuramente la mia esperienza coincide con le grandi novità e le grandi affermazioni dell’epoca di Enrico Berlinguer, che ha costituito per noi il faro vero.
Tutta la generazione giovane degli anni Settanta che aderì alle organizzazioni giovanili, in un primo momento alla Federazione Giovanile Comunista Italiana, lo fece sull’onda di battaglie che sembrava che Berlinguer, e quel partito che dirigeva, potesse meglio interpretare rispetto ad altri, anche meglio di quanto non stesse facendo il partito socialista, che pure era molto più avanti rispetto al tema dei diritti civili e dei diritti umani. Molto più del partito comunista.
Cosa aveva il Pci che il Psi non aveva?
Ma, il Psi aveva un deficit di presenza, di capacità organizzativa che invece non aveva il Pci, che mostrava un’apertura fantastica al dialogo e alla discussione. Ci siamo impegnati mentre eravamo stimolati dai segretari delle sezioni del Partito comunista, che erano davvero dei servitori sociali, degli addetti ai servizi sociali di grandissimo livello. In quel periodo ho conosciuto anche lo stesso partito socialista, e quindi se devo passare dalle personalità che hanno influenzato in quella fase la mia formazione, anche la mia decisione di aderire al partito comunista attraverso Enrico Berlinguer, devo anche dire che ci sono stati uomini che mi hanno colpito molto e non soltanto nel partito comunista.
Di quali personaggi si tratta?
Ricordo con grande affetto il mio amico e compagno Angelo Ziccardi, scomparso due anni fa, ma ricordo anche Michele Cascino che svolgeva una funzione importantissima in quel momento in Basilicata.
E devo dire che la mia formazione politica e le mie decisioni sono state condizionate da questo tipo di personalità politiche, anche molto autorevoli e severe dal punto di vista dei ragionamenti, che non concedevano nulla alla discussione che non fosse un impianto rigorosissimo, un impianto direi persino scientifico molto rigoroso.
Che cosa ha inciso sulle sue decisioni di fare politica e com’è avvenuta la sua formazione?
Vengo da un’esperienza molto particolare perché ho frequentato i tre anni di scuola media presso il seminario maggiore dai sacerdoti a Potenza. Mi volevo fare prete. Una volta uscito dal seminario per una serie di vicissitudini legate a problemi di salute, mi sono ritrovato al liceo di Matera. Le prime esperienze politiche sono legate ai movimenti studenteschi che animavano le scuole. Parliamo del post ‘68 e la vivacità dei movimenti studenteschi evidentemente ha influenzato la mia testa. Nel giro di pochissimo tempo mi sono interessato fortemente a una proposta che riguardava i mezzi di trasporto. Io sono di Ferrandina e come è noto non sono originario di Matera. Quindi, ogni mattina prendevo l’autobus delle Calabro Lucane per andare a scuola a Matera. Viaggiavamo come sardine e abbiamo cominciato a protestare. Fu così che un giorno decidemmo di bloccare il bus mettendoci di traverso per strada. Un gruppetto di noi andò sotto processo con l’accusa di blocco stradale, violenza privata, blocco di servizio pubblico e altro. Insomma, per molti di noi la percezione di ingiustizia ebbe origine proprio da questi episodi e fu ciò che poi ci spinse all’impegno politico. Ed io sono uno di quelli.
Quindi la spinta alla politica fu molto più semplice di ciò che in genere si può immaginare.
Proprio così. Nulla a che fare con le scelte epocali. Marxismo, Leninismo… non centravano assolutamente niente. Trovammo le porte aperte del partito comunista che dava voce alle nostre emozioni, alle nostre proteste e anche, soprattutto, alla nostra ansia di vedere il cambiamento, quindi capimmo che le cose in Italia potevano cambiare anche attraverso un impegno diretto da parte nostra. Cominciò anche la presa di coscienza delle difficoltà che stava attraversando il Paese, cominciammo a prendere visione di quello che era accaduto qualche mese prima, il 12 dicembre del 1969, a Milano con i morti della Banca dell’Agricoltura, le bombe nere, la strategia della tensione. Cominciammo a leggere l’Espresso, i giornali che raccontavano di una situazione allarmante, anche economica, che viveva il nostro Paese. E di lì passammo alle vie della politica, ovvero a quelle che ci hanno insegnato a capire e a interpretare la realtà.
E allora come avveniva esattamente l’adesione al Pci?
Quando qualcuno si chiede alle volte se l’adesione apparteneva all’ideologia è assolutamente sbagliato. Non sapevamo cosa significasse il Marxismo, il Leninismo. Noi vedemmo nel partito comunista e nelle sue organizzazioni giovanili un luogo in cui si poteva ragionare con gli altri. Si poteva discutere del proprio Paese, della propria realtà. Si poteva parlare della scuola. Si poteva parlare del nostro futuro. Niente a che fare con un’idea di chiusura ideologica alla quale si aderiva. Restava la forza del partito comunista quella che nonostante fosse quel partito che comunque era all’interno di un impianto molto rigido e lo è stato per lunghi anni fino al suo scioglimento, interpretava in maniera intelligente le spinte e le idee della vita quotidiana delle persone.
Quindi nessuno di voi sapeva cosa era accaduto in Ungheria, a Budapest nel 1956, con i carri armati di Nikita Chruscev, oppure a Praga dopo poco più di dieci anni? A che età ha messo le mani nella storia?
No, non sapevamo assolutamente niente. Noi eravamo dei ragazzi. A quattordici anni non potevamo capire. L’adesione non apparteneva all’ideologia. Capimmo dopo che c’era qualcosa che non quadrava in tutta la storia. E alla forza evocativa e alla spinta che allora esercitava la rivoluzione d’Ottobre, che ancora oggi è intatta nel suo grande valore, poi è successo l’ira di Dio, è accaduto di tutto. E la tragedia sovietica oggi è chiarissima. E ancora una volta, siamo tutti bravi a dire oggi, con il senno di poi, che è stata la seconda tragedia dopo quella del Nazismo in Europa. L’altra è stata proprio quella del comunismo sovietico.
Quindi voi non eravate a conoscenza degli eventi e del resto Berlinguer prendeva le distanze!
Berlinguer aveva detto che si sentiva molto più tranquillo sotto l’ombrello della Nato, che era il patto d’alleanza occidentale che non invece sotto il cappello dell’Unione sovietica. Ciò nonostante, e lo dico con grande rammarico, il ritardo estremo del Pci a prendere atto della situazione che andava modificata e per farlo bisognava mettere mano a una trasformazione profonda che non fosse in continuità, ma che doveva segnare una discontinuità netta. Purtroppo non è accaduto. Berlinguer morì sostanzialmente rimanendo comunista e questo è stato uno dei grandi guai e dei gravi ritardi.
Lei e Berlinguer che rapporto avevate?
L’ho conosciuto direttamente e personalmente. Ci fu un episodio bellissimo e indimenticabile che risale al 1980, quando Berlinguer venne a Matera durante la campagna elettorale. Lo ospitammo ed ebbi l’onore di aprire quella grandissima manifestazione in piazza Vittorio Veneto. Credo fosse il mese di giugno. Allora, quasi sempre, si votava a giugno. C’erano le elezioni regionali e contemporaneamente quelle comunali e provinciali.
E cosa accadde quando Berlinguer venne a Matera nel 1980?
Berlinguer arrivò a Matera la sera prima del comizio. All’epoca si aveva cura di trasferire e riferire al Segretario Nazionale, o a esponenti di rilievo nazionale, ma per il segretario valeva ancora di più, la situazione locale e lo si faceva con note scritte o appunti dati al portavoce, allora Tonino Tatò, che lo seguiva come un’ombra. Organizzammo un’accoglienza in un momento delicato della vita dell’Italia. Fu non semplice. Allestimmo il palco in piazza con la sicurezza che ispezionava uno per uno fino all’ultimo minuto prima che il segretario salisse sul parco. Erano gli anni della violenza concentrica dei neri e delle Brigate Rosse, quindi non era una situazione semplice. Ospitammo Berlinguer presso l’hotel De Nicola, poi Hotel Nazionale. Prenotammo un intero piano perché bisognava ospitare anche la scorta, il portavoce: Tonino Tatò e noi stessi. Personalmente ero responsabile dell’organizzazione della Federazione di Matera, dormimmo li perché bisognava avere qualcuno che doveva dare informazioni se ce ne fosse stato bisogno, sempre in ordine alla sicurezza. Ricordo che quella sera Berlinguer volle arrivare a piedi fino a Palazzo Lanfranchi.
Ci fu una lunga chiacchierata. Io ero giovane, avevo soltanto 25 anni, però seguivo questo piccolo corteo perché nella passeggiata Berlinguer voleva sapere e chiedeva informazioni su tutto quello che vedeva. Arrivammo fino all’affaccio di piazzetta Pascoli da cui si vedevano i Sassi. Ovviamente l’affaccio all’epoca era lugubre perché soltanto dopo c’è stata l’opera di risistemazione dei Sassi. Durante questa passeggiata si rievocarono gli eventi in cui Matera era stata protagonista nel Secondo dopo guerra con le grandi lotte per la terra, con le battaglie che poi ci furono per l’industrializzazione.
So che ci fu un episodio che la colpì in modo particolare, ci racconti in modo da divulgare la questa bellissima storia a quante più persone possibili.
Sì, ci fu un episodio che mi colpì molto. E’ legato ai miei ricordi del giorno dopo questa passeggiata di cui vi ho appena detto. Accadde durante il comizio e riguarda gli appunti che gli erano stati consegnati dal Segretario provinciale, allora era Rocco Collarino, che per altro in quel momento era candidato al Consiglio regionale. Ricordo che Berlinguer teneva costantemente in una mano una penna Bic, con la quale seguiva gli appunti dattiloscritti che aveva nell’altra mano. Ogni tanto, con la stessa penna, mentre parlava, correggeva qualche termine. Davvero sembrava che nel parlare svolgesse una riflessione, non era dunque un semplice comizio, era qualcosa di molto più profondo con l’analisi specifica delle singole parole. Ovviamente, quella sera ci fu una grande partecipazione.
E qual è la morale di questa storia?
Di quelli là non ce ne sono più, questo è un problema.
Come non è avvenuta la sua prima candidatura?
Io sono stato candidato a Ferrandina nel Consiglio comunale, ma c’è stato un precedente che risale al 1975, quando ero segretario della Federazione giovanile a Ferrandina.
Ricordo che proprio Ziccardi venne nella sezione del Pci di Ferrandina in occasione delle regionali, era la seconda legislatura dopo l’istituzione formale delle Regioni che avvenne nel 1970. Bene, fu chiesta la presenza di un giovane nella lista regionale e quindi Ziccardi pronunciò importantissime parole quando disse “vorremmo candidare Salvatore Adduce”. Ehm e subito aggiungendo “ che naturalmente non sarà eletto”. Ma allora non era come è adesso che appena si è in lista si comincia con le trame eversive per poter essere eletti. Allora il semplice fatto di sentire pronunciato il mio nome equivaleva alla candidatura di un film all’Oscar. E mi chiesero poi i documenti, così qualche giorno dopo feci avere i miei documenti alla Federazione provinciale. Quando videro la data di nascita, non avevo 21 anni, ma ne avevo venti nel 1975 e allora non fu possibile.
E allora la sua prima candidatura a quando risale?
Nel 1980 fui candidato al Consiglio comunale di Ferrandina. Fui eletto con una caterva di voti. Allora c’erano anche le preferenze plurime e rimasi in Consiglio comunale per ben 14 anni. Una lunga esperienza che chiusi nel 1994 e l’anno successivo, nel 1965, fui candidato in Consiglio regionale. Quindi il treno passò la seconda volta dopo vent’anni. Fui rieletto nel 2000 in Consiglio regionale per la seconda volta e l’anno dopo nel 2001 in Parlamento e cinque anni dopo al Senato.
Dal Consiglio comunale, al Consiglio regionale e poi al Parlamento.
Con la caduta della Prima repubblica che cosa cambia in Basilicata e cosa rimpiange di quegli anni?
Rimpiangere è una parola controversa. Oggi non ci sono i partiti così come li abbiamo conosciuti nel Novecento. Le forze politiche non svolgono più nessuna funzione lontanamente paragonabile a quelle svolte durante gli anni della Prima Repubblica.
Si è passati dalla democrazia rappresentativa ad una sorta di “monstrum” che non è neanche una democrazia diretta, ma è una specie di mostro che non si capisce come funziona. E’ evidente. Basti pensare ai sistemi elettorali per i quali oggi un segretario di un partito qualsiasi, che nemmeno poi si dicono partiti perché si vergognano a farsi definire tali, decide come deve essere fatta una lista per la Camera dei deputati o per il Senato e lo decide con un numero progressivo che anticipa chi sarà eletto e chi invece no. E questo rappresenta la negazione assoluta della possibilità per il popolo sovrano di fare la sua scelta.
Quindi addio a programmi, progetti, capacità di leadership?
E’ evidente che tutto questo fa i conti con questa idea che esclude una forza intermedia che porta alla realizzazione di programmi e di progetti. C’è soltanto un’idea leaderistica per cui una bella mattina si alza il leader di turno.
D’altra parte non è una questione soltanto italiana. Vediamo quello che sta succedendo in Russia. La vicenda americana è molto diversa perché come si può osservare la procedura per arrivare all’elezione del Presidente degli Stati Uniti è molto elaborata e complessa.
Non rimpiango niente, ma abbiamo perso tante occasioni per fare trasformazioni vere in senso democratico e partecipato dei nostri sistemi.
Pensa che adesso come adesso servirebbe un nuovo soggetto contenitore per questa sinistra riformista e democratica. La vede questa necessità all’orizzonte?
Penso che è sotto gli occhi di tutti la necessità di avere non tanto un contenitore dove ci stanno tutti, ma di avere una politica che dica che cosa si voglia fare e con quali forze lo si voglia fare. La mia risposta quindi non è quella di un unico contenitore. Del resto è’ un’esperienza che abbiamo già fatto. Quando nel 2007, con travaglio infinito, decidemmo la fondazione del nuovo soggetto che fu il Partito democratico, frutto dell’unificazione delle grandi forze del riformismo di sinistra del Novecento e del cattolicesimo democratico, fu esattamente quello che lei diceva. Ma com’è andata a finire?
Quindi è molto più semplice mettere insieme le forze, anche lasciando autonomia?
Certo! Non è detto che dobbiamo ingabbiare tutto, però bisogna farlo avendo un po’ di cura perché bisogna dire in quale verso si vuole andare. Non può essere che quest’idea “fessa” di questi anni, secondo cui non c’è sinistra e non c’è destra, debba continuare. La propaganda di questi anni né di destra e né di sinistra non significa niente. La verità è che c’è la destra e c’è la sinistra.
E quello che poi si riassume quando si sente dire “voto la persona”, lei come lo pesa?
Non significa niente votare la persona perché, prima di tutto, la persona esprime ideali. E’ importante l’attenzione dei diritti umani, e poi l’attenzione smisurata verso la saluta del bilancio della pubblica amministrazione, che ritengo sia il bene comune per eccellenza. Oggi, per esempio, che ci troviamo in questa situazione pandemica, capiamo benissimo cosa significa avere o non avere risorse a bilancio pubblico. Avere o non avere una sanità pubblica adeguata. E questo comporta che i bilanci devono stare in ordine per finanziare le spese a vantaggio di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro fede religiosa, dal sesso, dalla loro propensione politica, dal colore della pelle o altro
Quindi deduco che, con la grinta che mostra e con l’esperienza accumulata, si ricandiderà alle prossime elezioni per spingere l’acceleratore sulla politica e migliorarla?
No assolutamente. Il 14 febbraio compio 66 anni. Adesso penso che è necessario impegnarsi a spingere le nuove generazioni a partecipare. Noi, quando eravamo ragazzi, venivamo chiamati per impegnarci. Bah, in questi giorni ho messo ordine tra le carte personali e ho ritrovato alcuni articoli pubblicati sull’Unità. Si tratta di quegli articoli che scrivevo durante le riunioni. E’ una cosa impensabile pensarla oggi. Il grande giornale del partito comunista fondato da Gramsci, beh ci sono delle firme mie su quel giornale, che altro non erano che dei resoconti delle riunioni che facevamo nel 1975, 78 durante le grandi battaglie giovanili che poi diedero vita a quella legge che andò sotto il numero di 285. Il preavviamento al lavoro del 1977. Ho un’età che mi consente di poter dare una mano ai candidati senza necessariamente stare in prima fila.
Sul piano politico, quali personaggi hanno tentato l’impossibile per realizzare cambiamenti e migliorare le condizioni economiche e sociali in Basilicata?
Non ho nessun dubbio.
Non farò nomi e parlerò di una categoria di persone. Penso che quelli che hanno animato le lotte per la terra nell’immediato secondo dopo guerra sono stati dotati della più grande visionarietà. Loro ambivano a costruire, nelle condizioni date in quel momento, una realtà che consentisse ai contadini poveri e ai braccianti agricoli di trovare risposte alle loro esigenze, ma allo stesso tempo a modernizzare il settore primario che è stato la vera leva della modernizzazione del Mezzogiorno d’Italia.
Pensiamo soltanto a che cosa sarebbe oggi non solo il Sud, ma l’intera agricoltura se fosse rimasto quel tipo di impianto feudale e medioevale che era quello in cui siamo usciti dalla Seconda guerra mondiale. Pensiamo a Giuseppe Novella di Montescaglioso che ci ha rimesso le penne in quella epopea di lotte contadine.
Non per diffondere scoramento, ma come valuta il livello della politica dei tempi attuali (in cui i social hanno soppiantato il modello “romantico” della comunicazione politica, quello classico, fatto di piccoli gesti come: attaccare i manifesti, aprire e chiudere le sezioni, il tesseramento) e cosa propone per recuperare il romanticismo della politica e, quindi, il contatto con le persone?
E’ evidente che a distanza di anni qualcuno di noi può avere l’idea romantica, come suggerisce nella domanda, della sezione, della riunione. Ma allora non c’era nulla di romantico. C’era semplicemente il fatto che la militanza politica era intesa come una questione quotidiana che utilizzava mezzi e strumenti che in quel momento erano quelli che avevamo a disposizione.
L’altro giorno con i miei figli ho fatto una lunga chiacchierata anche divertente perché ho raccontato come, da responsabile dell’organizzazione, della stampa e propaganda del Pci di Matera, andai a Botteghe Oscure e mi feci regalare una macchina offset per stampare i volantini. Fu una rivoluzione per noi a Matera perché in qualunque momento del giorno e della notte potevamo stampare volantini come se fossimo in tipografia. Per capire che nulla c’era di romantico.
Quindi vi dedicavate alla politica notte e giorno, sempre! E allora, ritengo che sia questo il senso del romanticismo della politica.
Noi pensavamo che ogni nostra azione: dalla diffusione dell’Unità al mattino della domenica alla distribuzione del volantino davanti alla fabbrica o alla scuola, al pensare a un manifesto o a un volantino da stampare fosse decisivo ai fini del destino dell’umanità, senza alcuna propensione a costruire carriere di carattere personale. Eravamo convinti che quella nostra azione, seppur minima, seppur microscopica serviva al bene comune e al bene anche del partito. Non era mai scollegata questa cosa. Le due viaggiavano di pari passo. L’organizzazione del Pci era capillare ed eravamo come i Carabinieri. All’epoca dicevamo che in paese tutto poteva mancare fuorché la stazione dei Carabinieri e la sezione del Pci. Che era, per certi aspetti, la nostra illusione. Su questo posso venirle dietro con l’idea romantica perché c’era una presenza capillare, forte.
Ah proposito di comunicazione esiste un piccolo aneddoto da raccontare?
C’è un piccolo aneddoto a proposito di quella macchina offset che recuperai a Roma a Botteghe Oscure. Le macchine offset furono create per sostituire le macchine tipografiche linotype. Da Botteghe Oscure non venne solo la macchina ma venne anche un compagno che ci insegnò a utilizzarla. Lui ci disse anche che era importante che almeno una volta al giorno si doveva sentire la voce del Pci con un manifesto, un volantino o altro. Quindi, da questo insegnamento traggo spunto per non stupirmi di questo uso eccessivo, quasi esasperato, di necessità di comunicare. Le cose sono precipitate nel tempo. La differenza fondamentale è che mentre noi stampavamo il nostro volantino, adesso per parlare bisogna passare per una piattaforma privata. Cosa questa che conduce a riflettere ulteriormente sull’assenza di una regolamentazione sulla comunicazione in generale.
Ecco perché bisogna creare una regolamentazione e lo dimostra la grande abbuffata di Trump.
In effetti il mondo della comunicazione è un mondo oligarchico, dove sembra che tutti partecipiamo ma in realtà comandano in pochi.
Ci vuole una regolamentazione altrimenti siamo soltanto marionette.
Cosa serve oggi alla Basilicata per superare le emergenze e costruire un futuro migliore…
La Basilicata è un luogo molto particolare del Mezzogiorno d’Italia. Vado subito al punto. Penso innanzitutto alle infrastrutture e alla capacità di collegamento che la nostra regione deve avere con il resto del mondo. Ed è una cosa questa che non serve tanto e soltanto agli abitanti della Basilicata, ma serve al resto del mondo per accorgersi dell’esistenza della Basilicata. Ed è il lavoro che abbiamo fatto con Matera Capitale europea della cultura, grazie al quale siamo riusciti con un enorme programma culturale a far percepire la nostra regione come un luogo dove succedono delle cose in positivo. Dove è possibile produrre cultura, dove è possibile accogliere persone che si mettono in gioco e producano progetti, elaborino strategie e si mettano in contatto con il resto del mondo. Quindi, dobbiamo pensare a una Basilicata aperta e, non a caso, il nostro slogan per Matera 2019 era “Open Future” e dunque questa regione si deve spendere nei prossimi anni pensando che quel viaggio non solo non è finito, ma è appena cominciato.