Poche parole per introdurre la mia rubrica “Basilicata. La storia, la politica, il suo popolo”.
Ritengo che la conoscenza sia una grande risorsa, come anche un’ottima opportunità di crescita, e sono convinta che entrare nelle radici profonde di un territorio, specialmente in quelle del proprio territorio, sia un’esperienza che richiede tempo, sacrificio e dedizione per crescere con consapevolezza.
E’ un po’ come ricostruire l’albero genealogico della propria famiglia perché, in fondo, la Basilicata è una grande famiglia.
La mia rubrica rappresenta il mio impegno per i lettori lucani e non, per questo mi auguro che siate invogliati a leggere le storie che vi propongo con la stessa forza che mi caratterizza e mi induce a divulgare quanto più possibile la bellezza delle radici a cui appartengo. Raccoglierò le testimonianze di quanti hanno concorso a realizzare il quadro politico e la storia della Basilicata, utilizzando al meglio le potenzialità del territorio.
Buona lettura!
Rosita Stella Brienza
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Per scoprire un fiume in piena, un ciclone virale non è poi così difficile se si ha di fronte Gianfranco Blasi. Tra i fondatori del centro destra in Basilicata, parlamentare, due volte consigliere regionale e consigliere comunale nella sua città, Potenza. E’ stato amministratore di diverse società pubbliche. E’ conosciuto per le sue qualità di scrittore, poeta e animatore culturale. Cofondatore di un partito di territorio come Grande Sud. Responsabile per il Mezzogiorno di Forza Italia. Relatore in Parlamento dell’indagine conoscitiva per l’introduzione dell’Euro in Italia. Collega giornalista, curatore di un blog, “Pensieri meridiani”. Dopo il successo de “La croce diversa”, un romanzo storico giunto alla terza edizione e alla quarta ristampa, ha pubblicato quest’ anno “My generation”, una raccolta di novelle sulle stagioni dell’amore attraverso le canzoni.
La sua esperienza a servizio della Basilicata è maturata grazie ad un percorso formativo che le ha consentito di entrare gradualmente nella scena politica lucana. Quali sono stati i momenti salienti della sua formazione politica e come ha contribuito con il suo impegno allo sviluppo e alla crescita del territorio lucano?
L’impegno politico è nato da una forte tensione sociale e culturale. Una conseguenza dell’educazione famigliare e della formazione che ho ricevuto. Credo nelle chiamate. Quel fuoco dentro, la tensione ideale mi contraddistingueva fin da ragazzo. Da metà degli anni ’70. Praticamente da adolescente. Prima a scuola, grazie ai modelli partecipativi di allora. Poi nel movimento cattolico. Fino a ritrovarmi dirigente giovanile e segretario della più grande sezione della Democrazia Cristiana della città di Potenza. Il passaggio alla Cisl fu quasi automatico.
Per me furono anni di formazione straordinaria, a Roma, nella scuola di Formazione a Taranto, a Lucca, presso la Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione dove ho studiato Organizzazione Aziendale. Elaborai, ebbi buoni maestri, scrissi molto. Divenni segretario regionale della Funzione Pubblica e dirigente regionale del sindacato cattolico.
Arrivò poi il’94.
La Democrazia Cristiana si frantumò e divise. Iniziò una stagione segnata anche dall’eccessiva presenza del potere giudiziario. Che divenne una sorta di arbitro di parte di quanto poi accadde. Comunque la politica fra movimento studentesco, parrocchia e sezione di partito è un’immagine che mi piace ricordare e di cui vado fiero.
Con la caduta della Prima Repubblica lo scenario politico lucano è cambiato. Cosa rimpiange di quegli anni?
Più che rimpiangere qualcosa, credo che qualcosa ci sia stato sottratto. Nel senso che mancò il tempo di una riflessione compiuta. L’accelerazione verso il così detto cambiamento avvenne troppo repentinamente. Probabilmente perché, come sempre accade nelle epoche di transizione ci fu un riposizionamento delle classi dirigenti. Nel nostro paese capitò anche alla fine del fascismo. Non ha idea di quanti podestà poi divennero, il giorno dopo della caduta del duce, sindaci nei propri paesi.
Ovviamente, nel mio caso, era tutto un germogliare di idee, un aderire a nuovi processi politici. Forse si trattava anche di lealtà. Lealtà rispetto ad un percorso. Io appartenevo ad un gruppo di pensiero che scelse di non seguire Martinazzoli. Ricordo le forti tensioni sia con i miei dirigenti nazionali e regionali della Cisl, sia con gli amici della Dc che scelsero l’accordo a sinistra. Lo fece, non senza stupirmi, anche un’icona (per me) della politica come Emilio Colombo. Ci trovammo, mi ritrovai, in Basilicata, con alcuni amici e compagni di viaggio (Francesco Somma, Nicola Pagliuca, Gianpiero Perri, per fare alcuni dei nomi che mi erano più vicini), a fare due passi ancora più in là. Sposammo l’idea di un contenitore moderno come Forza Italia. Una casa laica dove liberali, cattolici e socialisti riformisti si riconobbero abbastanza agevolmente.
Ricordo i cenacoli di lavoro con Paolo del Debbio, Franco Frattini, Antonio Martino, Giuliano Urbani, Giuliano Ferrara, don Gianni Baget Bozzo, Alberto Michelini, gli amici di Comunione e Liberazione. Frequentai Alfredo Biondi, grazie a liberali lucani come l’avvocato Michele Cimadomo. Sullo sfondo, dominante, naturalmente, la figura di Silvio Berlusconi che dopo qualche anno avrei conosciuto meglio e bene in Parlamento e a Palazzo Chigi.
Sul piano politico, quali personaggi hanno tentato l’impossibile per realizzare cambiamenti e migliorare le condizioni economiche e sociali in Basilicata?
Si, cambiamo argomento e periodo temporale. Farò alcuni nomi, potrei farne di più. Sul piano storico e del regionalismo credo che Vincenzo Verrastro, primo presidente della Regione Basilicata, meriti una citazione a parte. Anche per la sua forte vocazione religiosa oltre che culturale. Sempre sul solco della storia e per non essere banale, non posso non indicare Emilio Colombo. Ma non per un fatto dovuto o personale, che pure conterebbe. Proviamo a ricordare: deputato alla Costituente, parlamentare, sindaco, sottosegretario all’agricoltura, sette volte ministro, presidente del Consiglio dei Ministri, presidente del Parlamento europeo e senatore a vita. Il suo cursus honorum è stato così ampio e alto, dalla fine della guerra fino a noi, che di fatto, Emilio Colombo rappresenta non solo se stesso, con quella sua incredibile storia politica e con i prestigiosi incarichi nazionali e internazionali. No, Colombo rappresenta in uno: L’Europa, L’Italia, Il Mezzogiorno, La Basilicata, la città di Potenza. Una rappresentazione lunga e vasta, durata per più di mezzo secolo a cavallo fra il novecento e il nuovo secolo. L’aver saputo interpretare un mondo in transizione fra società rurale e modernità industriale è un altro dei fattori che segnalano la qualità del politico e del cattolico impegnato nelle istituzioni. Soprattutto se il punto di partenza è la provincia meridionale del dopo guerra. Un luogo dove le trasformazioni sarebbero state più lente e meno decisive. La cifra del bravo politico è nella comprensione dei tempi, nella tempestività delle scelte. In questo, Emilio Colombo fu precursore degli avvenimenti. Se esiste un cunicolo della storia dove iscrivere anche la profezia per una classe dirigente, non dobbiamo negare che quella profezia e il senso della storia erano ben presenti nel giovane Colombo che poi, anche per questo, sarebbe diventato uno statista.
La mia idea, che qui provo velocemente a sviluppare, è nella modernità di Emilio Colombo, nella sua atipicità rispetto ad altre leadership a lui contemporanee. Nella consapevolezza di servire, attraverso la politica, la propria comunità. Colombo era capace di mediare fra società e scelte della politica, fra comunità e governo dei processi sociali ed economici.
Per queste ragioni, “il presidente” è stato un politico diverso. Un democristiano non omologabile all’idea tradizionale del potere. C’è una differenza fra fine e mezzo, fra utilità personale e strumento d’azione. Il potere non è puramente servizio, spesso è lotta, conflitto, antagonismo. La straordinaria educazione di Colombo alla gentilezza, la sua capacità di elevarsi ne ha fatto sempre un leader mite, forte nella interpretazione, la più consapevole possibile, del ruolo che ricopriva.
Non per diffondere scoramento, ma come valuta il livello della politica dei tempi attuali (in cui i social hanno soppiantato il modello “romantico” della comunicazione politica, quello classico, fatto di piccoli gesti come: attaccare i manifesti, aprire e chiudere le sezioni, il tesseramento) e cosa propone per recuperare il romanticismo della politica e, quindi, il contatto con le persone?
Sarei sciocco se solo immaginassi si potesse tornare indietro. I miei lunghi anni di impegno politico, passando dalla sezione di partito per giungere al consiglio comunale di Potenza fino al Parlamento, attraverso la intensa e non breve testimonianza in Regione Basilicata, mi inducono a rispondere a questa domanda proprio evitando il romanticismo che, da poeta e scrittore, mi piacerebbe molto introdurre. Provo a liberarmi, invece, dall’emotività.
Ogni epoca porta la sua croce e i suoi onori e piaceri. Non esiste il tutto bello e il tutto brutto. Non amo essere nostalgico. Preferisco il realismo ed uno sguardo sempre aperto al futuro. La mediocre fase politica che stiamo vivendo negli ultimi anni ha prodotto una frattura generazionale. Direi, persino un salto generazionale. Un dato che alla fine si può valutare con qualche elemento di positività. In mezzo, però, ad un ampio e doloroso declino.
E’ vero. La politica nel suo complesso è molto scaduta, come missione e come mestiere. Non c’è formazione. Mancano i luoghi di discussione profonda e di partecipazione attiva. Il mondo dei social media rappresenta una scorciatoia al pensiero. Ha modificato il linguaggio. Richiede spesso un esercizio muscolare per affermare idee e fatti che, magari, resterebbero marginali se solo fossero approfonditi o meglio conosciuti.
C’è poi una questione più culturale. Per me, che sono un moderato, questa idea di scontro politico permanente, di divisione netta fra poli radicalizzati diventa uno scenario quasi inguardabile. Non c’è mai lo spazio per una posizione ragionata, discussa e poi, eventualmente scartata o condivisa. Al nostro paese serve un mix di autonomia e responsabilità, libertà e socialità, intrapresa e welfare. Non serve una volontà univoca che prevale su un’altra. Questo vale ancor di più per la Basilicata.
E dunque, volendo essere più incisivi, cosa serve oggi alla Basilicata per superare le emergenze e costruire un futuro migliore…
Il destino non è mai irreversibile. Penso a Benedetto Croce. La storia ha un senso se la si legge filologicamente, non settorialmente o banalmente in maniera congiunturale. Molti osservatori, molta dell’attuale classe politica, anche importanti centri di ricerca e di studi sociali ed economici, restano fermi alla cura dei sintomi, ad analisi parziali ed emotive, a vecchie letture ideologiche spesso centraliste se non, appunto, assistenziali (il modello della dipendenza).
Vengo alla domanda. Quali sono le patologie da sanare in Basilicata? Partiamo, come è inevitabile, dal Covid 19 e dalla pandemia …
Non è solo una narrazione l’affermare che ci stiamo per ritrovare, speriamo in tanti ed in buona salute, davanti all’ennesimo bivio. Anche in Basilicata. Dove gran parte della ricchezza veniva prodotta, fino a ieri, attraverso fattori esogeni: l’automobile e il petrolio. Certo, stava emergendo una forte vocazione turistica e di industria culturale. Il resto era agroalimentare e poco altro. Tutti questi settori sono entrati in fortissima crisi. E’ probabile che la Basilicata possa essere, alla fine, la regione del Sud che pagherà il prezzo più alto.
Ciò detto, sembra che debbano arrivare tanti soldi, parlo del Ricovery Fund e non solo. Due miliardi e mezzo, tanta roba. Compresi i fondi europei per il prossimo settennio.
La faccio breve. Vi sono visioni centraliste che vorrebbero condurre i progetti attraverso cabine di regia romane. Concezioni, che definirei, invece, più artigianali, che esplorano il territorio e le sue potenzialità. Che in una parola si basano sull’indipendenza di fatti, persone e corpi sociali. Il contrario del modello della dipendenza. Potremmo usare il termine “autonomia” o quello più famoso, parlo della “sussidiarietà”, provando a non spaventare chi non conosce il Titolo V della Costituzione e resta inchiodato solo agli slogan.
Il problema più grande che abbiamo davanti è in ogni caso il declino demografico. Il presidente Bardi ne è consapevole, ne ho contezza. La conseguenza, già visibile, è la desertificazione delle aree interne.
Questo vero e proprio dramma sociale nasce da più fattori, compresi gli stili di vita ma, soprattutto, dalla frammentazione del territorio e dalla disabitudine a intraprendere e a cercare lavoro. Si guardi alla narcotizzazione che produce il reddito di cittadinanza. Che non può essere per sempre.
Elementi di discontinuità sarebbero da ricercare nel potenziale delle risorse inutilizzate, nel digitale e nel green, nelle infrastrutture strategiche da completare, cominciando dagli schemi idrici, in un nuovo ruolo delle aree interne anche attraverso gli scenari di integrazione interregionali, con la valorizzazione delle interconnessioni fra Basilicata, Calabria settentrionale, Campania e Puglia.
Se fossi un decisore politico regionale, un sindaco lucano, un rappresentante sindacale o di categoria di vertice, considererei questo approccio come assolutamente prioritario.
Attenzione è da porre poi al ruolo strategico delle aree urbane regionali. Le potenzialità già espresse da Matera, quelle a forte intensità della città di Potenza e del suo hinterland, le due, a vocazione turistica e di economia del territorio del Vulture Melfese e del Metapontino, l’area Sud a cavallo fra val d’Agri, Pollino e Maratea.
Chiudo ed insisto sull’autonomia. Tutti gli osservatori, sia quelli di parte, che quanti provano ad esprimere giudizi non conformisti, sanno che sul termine “autonomia” in questi ultimi tempi si è molto giocato politicamente. Gli interessi del Nord sono stati sovrapposti a quelli del Sud. Si è provato a raccontare il percorso autonomo come troppo egoista e non inclusivo degli interessi generali. Con la disciplina dello studioso e del legislatore di lungo corso, devo sottolineare che esiste un percorso costituzionale e legislativo, un iter parlamentare del “Regionalismo differenziato”, assai rigoroso. Quello che più mi intriga affermare è il senso diverso, il collegamento politico alternativo e lungimirante con cui bisogna coniugare la parola “autonomia”. Non è semplicemente indipendenza, cioè superamento della dipendenza. No, l’autonomia per dirla con il prof. Leonardo Cuoco, non si sposa meccanicamente, se volete, sussidiariamente al concetto morale di responsabilità. Proprio Cuoco, profeticamente, va al di là. Ci dice che “i pilastri che si ritengono strategici per favorire le operazioni di cambiamento e garantire l’esercizio efficiente degli istituti dell’autonomia sono: la ricerca e la conoscenza”. La centralità deve essere data alle risorse da produrre piuttosto che alla gestione di risorse date. In questo caso, con qualche differenza con l’impostazione del pur bravo ministro per il Mezzogiorno, di scuola Svimez, Provenzano, parlo della lotta politica fra centralismo e territori, fra stato e mercato che torna sempre di attualità.