Jung parlava dell’archetipo del guaritore ferito, di colui che tiene in sè due poli opposti: il guaritore e il ferito. Più che mai attuale nelle professioni di cura. Tutto inizia con la storia di Chirone, centauro saggio e benevolo, figlio illegittimo di Crono e Fillira, che fu grande esperto dell’arte medica e insegnante di Asclepio, padre della medicina. Chirone fu colpito involontariamente da una freccia scagliata proprio dall’amico Eracle che gli procurò una ferita inguaribile molto dolorosa. Essendo egli immortale sarebbe stato costretto a una vita di sofferenza. Zeus, però, mosso da compassione, permise a Chirone di donare la sua immortalità a Prometeo salvandolo e salvando con lui tutti gli uomini.
È proprio attraverso la sofferenza che Chirone impara l’arte della cura e a tenere sempre presente la propria ferita, che è simbolicamente lo spazio attraverso cui il dolore e la sofferenza possono entrare in lui. Prima di andare a insegnare l’arte della cura egli deve prendersi cura di sé.
Per chi si occupa delle professioni di cura è fondamentale, come per Chirone, comprendere la propria sofferenza per riconoscere quella dell’altro, per incontrarlo e aiutarlo. Bisogna prendersi cura di sé per poter prendersi cura degli altri. Gli operatori sono sempre “guaritori feriti”. Nel vivo dell’esperienza quotidiana, a contatto con il disagio, spesso vivono situazioni di rispecchiamento in cui risuonano le loro stesse fragilità e difficoltà, come se ogni incontro con i vissuti dell’altro suscitasse e amplificasse, anche in coloro che li accompagnano, emozioni che stimolano a rileggere la propria realtà personale e i propri vissuti.
Proprio come Chrione, prima di prendersi cura degli altri doveva curare la sua ferita, così per gli operatori sanitari per comprendere il dolore degli altri e averne cura è necessario prima di tutto prendersi cura delle proprie fragilità, per evitare di assumere un codice di comportamento oblativo e sacrificale che consuma le proprie energie emotive, ma non aiuta gli altri.
È infatti molto pericoloso l’atteggiamento “sacrificale” di chi scambia per empatia un atteggiamento di identificazione e fusionalità e si lascia “bruciare” nel coinvolgimento (il noto burn-out). Il continuo contatto con emozioni intense, con la pietà, il dolore, la rabbia, l’indignazione provoca una sorta di “rispecchiamento” che non aiuta né il guaritore né il paziente.
Dal lato opposto, questo disagio emotivo può generare una sensazione di impotenza o fallimento del proprio ruolo professionale che spinge a fuggire per evitare un problema e induce a erigere barriere difensive dietro cui trincerarsi per autodifesa. Ma non si può fuggire continuamente. E quando il malessere diventa una condizione cronica può intaccare la sfera professionale e la qualità della vita personale e familiare.
Un buon medico, terapeuta, infermiere è una persona ferita, che è entrata in contatto con la propria sofferenza e che l’ha affrontata, l’ha resa parte di sé, e da questa ferita ha trovato la via per prendere contatto con le ferite altrui. La via da coltivare tra la fuga e il bruciarsi è allora una questione di “distanza”.
La ricerca per trovare in ogni situazione quella “giusta distanza”o “giusta vicinanza” significa sapere farsi prossimi senza bruciarsi, avere consapevolezza di dovere “abitare la distanza” e renderla significativa nella vicinanza emotiva, nell’empatia, nella condivisione esistenziale di guaritori feriti.
Contributo di Vanna Iori,